La popolazione di orso bruno dell’Appennino centrale venne descritta come sottospecie con il nome di Ursus arctos marsicanus da Giuseppe Altobello, un naturalista molisano, nel 1921. Rispetto alle altre popolazioni di orso bruno europee, la sottospecie appenninica si distingue per vari caratteri morfologici e morfometrici del cranio particolarmente evidenziabili negli esemplari adulti. Mentre nelle femmine e nei giovani il cranio è simile a quello delle altre popolazioni euro-asiatiche, nei maschi il capo è corto, allargato, alto con una cresta marcata ed il muso corto. Dal 2003  l’esistenza di questa sottospecie è stata formalizzata e pubblicata [Vigna Taglianti A., 2003] sul volume 38 della Fauna d’Italia ed è stata confermata dalle ricerche e dalle pubblicazioni successive.

Nonostante le dimensioni ridotte rispetto all’orso bruno alpino-balcanico, i maschi di orso bruno marsicano solitamente raggiungono un peso tra i 130 e i 200 kg con un’altezza di 180-190 cm in posizione eretta, mentre le femmine sono più piccole e raramente superano i 120 kg. In genere il rapporto tra sessi nella specie è di 1:1. Il verso dell’orso si chiama ruglio. Può vivere fino a 40 anni (sebbene in natura difficilmente superi l’età di 25 anni) ed è il più grande carnivoro italiano, anche se la sua dieta è costituita per circa l’80% da sostanze vegetali. L’orso si nutre principalmente di faggiola, ghianda, ramno, bacche, radici, frutta selvatica, insetti, miele e naturalmente carne, incluso in particolare quella che ricava dalle carcasse di animali morti (necrofago) che trova in genere dopo l’inverno quando si risveglia dal letargo.

L’habitat del plantigrado è molto vario e varia secondo la stagione. Va dai boschi di montagna alle radure di fondo valle che frequenta a inizio primavera fino alle praterie d’alta quota, nelle quali si trasferisce nei mesi più caldi in cerca di refrigerio o per nutrirsi delle bacche del ramno che maturano a fine estate.

Alla fine della primavera inizia per gli orsi il periodo degli amori e avvengono gli accoppiamenti. Dopo le primissime fasi di sviluppo l’ovulo fecondato si arresta in uno stato di quiescenza o diapausa embrionale. In autunno la femmina deve alimentarsi abbondantemente (iperfagia) per accumulare grasso per il letargo invernale e per far sì di avere risorse sufficienti per portare a compimento la gravidanza. Anche i maschi hanno bisogno di accumulare grasso prima di cadere in uno stato di letargo parziale dal quale si risvegliano di tanto in tanto per procurarsi il cibo in giornate particolarmente miti. Per trascorrere l’inverno l’orso sceglie la tana in luoghi particolarmente inaccessibili e tranquilli, spesso si tratta di cavità della roccia dove l’animale accumula rami ed erba per crearsi un giaciglio.

In tana tra Dicembre e Gennaio, grazie allo sviluppo differito dell’ovulo fecondato, le femmine mettono al mondo da 1 a 3 cuccioli che pesano alla nascita da 200 a 500 grammi. L’alto valore nutrizionale del latte materno consentirà la rapida crescita degli orsacchiotti. Poiché resta per circa 2 anni con la prole, con cui passa almeno l’inverno e la primavera successivi, la femmina partorisce in genere solo ogni 3-4 anni e non è feconda in genere prima dei 4 anni d’età. Tutti questi fattori uniti ad un’alta mortalità registrata tra i cuccioli nel loro primo anno di età rendono il numero delle femmine fertili in una piccola residuale popolazione di orsi un elemento chiave per la sua sopravvivenza a medio-lungo termine.

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[*] VIGNA TAGLIANTI, A. 2003. Ursus arctos, Linnaeus 1758. Note di sistematica. Pagine 87–92 in Fauna d’Italia, Volume XXXVII. Mammalia. III. Carnivora—Artiodactyla. Calderini, Bologna, Italia