Ciliegio selvatico (Prunus avium)
a cura di Marta Trobitz
Il ciliegio selvatico, noto anche con il nome di “ciliegio degli uccelli”, è un albero appartenente alla famiglia delle Rosaceae.
Il suo nome scientifico deriva dal tipo di disseminazione della pianta: in molti casi, infatti, gli uccelli che si nutrono delle drupe sono in grado di demolire il nocciolo con i loro potenti succhi gastrici propagando i semi attraverso le feci.
Il Prunus avium raggiunge i 15-32 metri di altezza con un portamento eretto e una chioma dalla forma globosa. La sua corteccia liscia porpora-marrone si intervalla spesso con formazioni cellulari allungate ed orizzontali (lenticelle) di color grigio-marrone. Dalle ferite della corteccia fuoriesce una resina chiamata “gomma del ciliegio” e spesso utilizzata per aromatizzare caramelle e dolci.
Il ciliegio selvatico ha un apparato radicale particolarmente robusto, esteso e ramificato in profondità. È un albero non molto longevo. Raggiunge un’età massima di circa 100 anni. Vive bene nei boschi, specialmente al margine di radure, fino a 1.600 metri di quota.
I fiori del ciliegio, che precedono di poco la comparsa delle foglie, hanno 5 petali, sono di colore bianco candido e raggruppati di solito in piccoli fascetti.
I suoi frutti, drupe o ciliegie, sono leggermente più piccoli di quelli coltivati e hanno diverse sfumature di colore dal rosso al viola. Talvolta sono persino neri.
La fioritura precoce sostiene e nutre le api e molti altri insetti pronubi. Dei frutti caduti a terra si cibano tassi, martore, volpi, faine e tutti i piccoli roditori del bosco. L’orso, ottimo arrampicatore, se ne nutre direttamente dall’albero, alla ricerca attenta delle drupe più buone e dolci.
Il ciliegio selvatico, di origine asiatica, sembra sia stato importato a Roma nel 73 a.C. e che il suo nome derivi da Cerasunte, una città sul Mar Nero. Tuttavia, i semi di un certo numero di specie di ciliegie sono stati rinvenuti in tutta Europa in siti archeologici dell’età del bronzo, di epoca romana e nei resti di un villaggio di palafitte in area lombarda.
Alcune credenze narrano che nel periodo natalizio i contadini fossero soliti cingere i tronchi dell’albero con un cordame come minaccia per gli alberi che l’anno precedente non avevano fruttificato abbastanza. In Francia nel secolo XVII alcuni regolamenti obbligavano a rispettare il ciliegio selvatico affinché i poveri potessero mangiarne i frutti.
Il legno del ciliegio è di colore bruno rosato da chiaro a giallastro. È ricercato dall’industria mobiliera, sia in tronchi che in travi e per la realizzazione di strumenti musicali.
Nella mitologia greca il ciliegio era l’albero sacro a Venere, i cui frutti parevano portar fortuna agli innamorati. In Sicilia si ritiene che le dichiarazioni d’amore fatte sotto un ciliegio godranno sempre di buona sorte.
Il ciliegio selvatico è utilizzato in fitoterapia sotto forma di decotti e tisane per il suo alto contenuto di vitamina C. Ha proprietà diuretiche, antiuriche, lassative, rinfrescanti, aromatiche, antigottose, astringenti e antiflogistiche. Sono utilizzati anche i peduncoli del ciliegio, riconosciuti nella medicina popolare come noti diuretici.
Il corniolo (Cornus mas)
a cura di Marta Trobitz
Il corniolo è un arbusto spontaneo appartenente alla famiglia delle Cornaceae.
Il suo nome deriva dal latino: cornus = corno, per il legno lucido e duro come il corno e mas = maschio, forse per distinguerlo dal sanguinello (Cornus sanguinea), anticamente definito Cornus femina.
I cornioli sono arbusti caducifogli e latifogli, alti fino a 5-6 metri e altrettanto larghi. I rami sono di colore rosso-bruno, caratterizzati da corteccia scagliosa. Sono piante longeve, possono diventare plurisecolari ed hanno una crescita molto lenta. È una specie che predilige i terreni calcarei, e vive in piccoli gruppi nelle radure dei boschi di latifoglie, tra gli arbusti e nelle siepi del piano sino a 1500 – 1600 metri di altitudine. Fiorisce tra febbraio e marzo prima della fase di fogliazione. I fiori sono di colore giallo e di dimensioni ridotte (circa 5mm).
Il frutto del corniolo è una drupa (frutto carnoso) commestibile, dalla forma di una piccola oliva o ciliegia oblunga di colore rosso-scarlatto, dal sapore acidulo. Matura ad agosto ed è particolarmente apprezzato dagli orsi nel periodo dell’iperfagia, allorché devono mangiare abbondantemente in vista del periodo d’ibernazione. Le drupe contengono un unico seme osseo, riconoscibili negli escrementi degli animali che se ne nutrono.
I Romani utilizzavano il legno robusto del corniolo per la costruzione di dardi e le bacche per uso alimentare, coltivando questo arbusto anche nei loro orti. Una leggenda narra che Romolo, il fondatore di Roma, per segnare il confine della futura città, abbia lanciato il suo giavellotto (realizzato con legno di corniolo) verso il Palatino. Il manico di corniolo, conficcandosi nel suolo, radicò e fiorì a simboleggiare la futura potenza di Roma.
Oggi i loro frutti sono utilizzati in cucina per ottime marmellate e in fitoterapia come forti astringenti e antiossidanti, ricchi anche loro, come la rosa canina, di una grande percentuale di vitamina C. Dal seme si ricava un olio da ardere e tutta la pianta ha proprietà tintorie di colore giallo.

Walther Otto Müller
Faggio (Fagus sylvatica)
a cura di Marta Trobitz
Il faggio appartiene alla famiglia delle Fagaceae ed è uno degli alberi più diffusi nel bosco italiano. In Appennino Centrale è presente nella fascia altitudinale compresa tra 800 e 2.000 m.
La sua chioma, sempre alla ricerca del sole, punta verso l’alto fino a raggiungere i 20-30 metri di altezza.
È un albero longevo che può arrivare a 500 anni di età. Nel periodo autunnale perde le foglie creando giochi di luce e splendidi colori caldi.
Viene chiamato “il Re dei boschi” perché regna sovrano con la sua chioma fitta di rami e foglie, limitando lo sviluppo del sottobosco. È considerato magico perché crea boschi e produce continuamente humus. Mantiene i terreni freschi e ben drenati attraverso le radici, che possono estendersi notevolmente grazie alla simbiosi con alcuni funghi.
La sua corteccia liscia, grigia e profumata lo rende inconfondibile.
Il faggio è una pianta monoica, ovvero produce sia fiori maschili sia femminili. La fioritura, che di solito avviene nel mese di maggio, in autunno donerà agli abitanti del bosco un alimento prelibato: delle piccole noci triangolari che prendono il nome di faggiole. L’orso ne è ghiotto e il tasso di natalità della specie aumenta in relazione alla cosiddetta “pasciona” del faggio, ovvero quando la produzione di questi frutti è particolarmente abbondante. Le faggiole sono commestibili anche per l’uomo, ma è preferibile consumarle tostate in modo da eliminare le tossine che vi sono contenute.
Il faggio è considerato nella mitologia l’albero cosmico, una vera e propria scala verso il cielo e il divino. Infatti, i popoli italici e i Romani veneravano le foreste di faggio considerandole luoghi in cui poter meditare e avvicinarsi agli dèi. Il bosco sacro alla dea Angizia nei pressi dell’odierna Luco dei Marsi è un esempio di questo antico culto.
Pruno europeo o Susino (Prunus domestica)
a cura di Marta Trobitz
Il pruno europeo, conosciuto anche come prugno o susino, è una specie arborea della famiglia delle Rosacee ben nota per i suoi frutti chiamati prugna o susina. L’origine della parola pruno è alquanto incerta: probabilmente deriva dalla radice indoeuropea prus, bruciare, da cui deriva anche il greco pyrsòs, rosso, colore del fuoco ardente.
Originario dell’Asia, fu introdotto in area mediterranea dai Romani verso il 150 a.C., ma furono poi i Cavalieri della Prima Crociata a portarlo in tutta l’Europa intorno al 1200 d.C., dapprima in Francia, poi in Germania e nelle altre regioni.
Il pruno ha la tipica forma ad ombrello o ad alberello di medie dimensioni con un’altezza che va dai 3-4 metri fino a 6-8 secondo la varietà. Predilige terreni freschi e profondi ed è possibile trovarlo fino a 1.000 metri di altitudine. Talvolta nodoso, presenta fiori solitamente bianchi che sbocciano già all’inizio della primavera ancor prima che la pianta metta le foglie. I frutti di forma ovale o sferica raggiungono una grandezza fino ad 8 cm.
A seconda della varietà, le susine maturano tra giugno e settembre e possono essere di colore diverso, gialle, rosse o bluastre. L’orso bruno marsicano ne va molto ghiotto e non si lascia sfuggire la possibilità di assaggiare questi frutti zuccherini disponibili proprio nel suo periodo di iperfagia.
Il pruno domestico è un albero non molto longevo e fruttifica per circa 20 anni.
Una curiosa credenza afferma che in Cina le ragazze contassero le prugne mature rimaste sull’albero per calcolare quanto tempo dovesse trascorrere per trovar marito. In passato il pruno domestico veniva usato come portafortuna per augurare la felicità di un matrimonio e per “restituire” la salute ai malati o come “tranquillante” per gli irascibili.
I suoi frutti trovano largo spazio in fitoterapia per gli alti contenuti di vitamine A-B1-B2 e C e di alcuni sali minerali come il potassio, il fosforo, il calcio e il magnesio.
![]() Fioritura di pruno. European plum in blossom | ![]() Pruno in fase vegetativa. European plum in vegetative phase. |
![]() Susine mature. Riped plums. | ![]() Un orso marsicano presso un susino A Marsican bear by a plum tree |
Ramno (Rhamnus alpina)
a cura di Marta Trobitz
Il ramno alpino è un arbusto cespuglioso della famiglia delle Rhamnaceae che in Appennino Centrale vive solitamente tra gli 1000 e i 2.000 metri di altitudine e che può raggiungere un’altezza massima di 2-3 metri.
Vive in preferenza su pendii rocciosi con un discreto grado di umidità. È una pianta che ama il sole e il vento. Viene definita pioniera perché in grado di insediarsi in ambienti quasi impossibili per qualsiasi altra forma di vita vegetale.
Fiorisce nei mesi di maggio – giugno per dare poi vita ai suoi frutti, le drupe, tra agosto e settembre.
Le drupe hanno un diametro di circa 5 mm, polpa carnosa e sapore dolciastro. Hanno proprietà lassative e depurative. Gli orsi ne vanno ghiotti e, nel periodo di maturazione, frequentano assiduamente i ramneti che pertanto vanno evitati dagli escursionisti per non disturbare gli animali in alimentazione. Attraverso le feci, gli orsi spargono i piccoli semi del ramno (disseminazione zoocora) favorendo la diffusione e la variabilità genetica di questa pianta.
Un tempo il ramno era inserito tra le cure farmaceutiche dell’uomo. Oggi i suoi frutti sono considerati dei lassativi troppo energici e si è scelto di utilizzarne solo una minima parte della corteccia per tisane regolatrici e depurative.
Le foglie hanno la pagina inferiore color argento. In inverno cadono mostrando l’intricato e affascinante gruppo di rami che fanno del ramno una pianta dal portamento ornamentale.