Carl Axel Magnus Lindman

Ciliegio selvatico (Prunus avium)

a cura di Marta Trobitz

 

Il ciliegio selvatico, noto anche con il nome di “ciliegio degli uccelli”, è un albero appartenente alla famiglia delle Rosaceae.

Il suo nome scientifico deriva dal tipo di disseminazione della pianta: in molti casi, infatti, gli uccelli che si nutrono delle drupe sono in grado di demolire il nocciolo con i loro potenti succhi gastrici propagando i semi attraverso le feci.

Il Prunus avium raggiunge i 15-32 metri di altezza con un portamento eretto e una chioma dalla forma globosa. La sua corteccia liscia porpora-marrone si intervalla spesso con formazioni cellulari allungate ed orizzontali (lenticelle) di color grigio-marrone. Dalle ferite della corteccia fuoriesce una resina chiamata “gomma del ciliegio” e spesso utilizzata per aromatizzare caramelle e dolci.

Il ciliegio selvatico ha un apparato radicale particolarmente robusto, esteso e ramificato in profondità. È un albero non molto longevo. Raggiunge un’età massima di circa 100 anni. Vive bene nei boschi, specialmente al margine di radure, fino a 1.600 metri di quota.

I fiori del ciliegio, che precedono di poco la comparsa delle foglie, hanno 5 petali, sono di colore bianco candido e raggruppati di solito in piccoli fascetti.

I suoi frutti, drupe o ciliegie, sono leggermente più piccoli di quelli coltivati e hanno diverse sfumature di colore dal rosso al viola. Talvolta sono persino neri.

La fioritura precoce sostiene e nutre le api e molti altri insetti pronubi. Dei frutti caduti a terra si cibano tassi, martore, volpi, faine e tutti i piccoli roditori del bosco. L’orso, ottimo arrampicatore, se ne nutre direttamente dall’albero, alla ricerca attenta delle drupe più buone e dolci.

Il ciliegio selvatico, di origine asiatica, sembra sia stato importato a Roma nel 73 a.C. e che il suo nome derivi da Cerasunte, una città sul Mar Nero. Tuttavia, i semi di un certo numero di specie di ciliegie sono stati rinvenuti in tutta Europa in siti archeologici dell’età del bronzo, di epoca romana e nei resti di un villaggio di palafitte in area lombarda.

Alcune credenze narrano che nel periodo natalizio i contadini fossero soliti cingere i tronchi dell’albero con un cordame come minaccia per gli alberi che l’anno precedente non avevano fruttificato abbastanza. In Francia nel secolo XVII alcuni regolamenti obbligavano a rispettare il ciliegio selvatico affinché i poveri potessero mangiarne i frutti.

Il legno del ciliegio è di colore bruno rosato da chiaro a giallastro. È ricercato dall’industria mobiliera, sia in tronchi che in travi e per la realizzazione di strumenti musicali.

Nella mitologia greca il ciliegio era l’albero sacro a Venere, i cui frutti parevano portar fortuna agli innamorati. In Sicilia si ritiene che le dichiarazioni d’amore fatte sotto un ciliegio godranno sempre di buona sorte.

Il ciliegio selvatico è utilizzato in fitoterapia sotto forma di decotti e tisane per il suo alto contenuto di vitamina C. Ha proprietà diuretiche, antiuriche, lassative, rinfrescanti, aromatiche, antigottose, astringenti e antiflogistiche. Sono utilizzati anche i peduncoli del ciliegio, riconosciuti nella medicina popolare come noti diuretici.

 


Albero di ciliegio selvatico.
Wild cherry tree.

I fiori già senza petali, che si trasformeranno in frutti.
The flowers already without petals, which will turn into fruits.

Dettaglio della corteccia del ciliegio selvatico, con le tipiche "lenticelle".
Detail of the wild cherry tree cortex, with the typical "lenticels".

La resina prodotta dal ciliegio selvatico è detta "gomma".
The resin produced by the wild cherry tree is called "cherry's gum".

Escremento di orso con ciliegie selvatiche all'interno.
Bear excrement with wild cherries inside.

Elizabeth Blackwell

Il corniolo (Cornus mas)

a cura di Marta Trobitz

 

Il corniolo è un arbusto spontaneo appartenente alla famiglia delle Cornaceae.

Il suo nome deriva dal latino: cornus = corno, per il legno lucido e duro come il corno e mas = maschio, forse per distinguerlo dal sanguinello (Cornus sanguinea), anticamente definito Cornus femina.

I cornioli sono arbusti caducifogli e latifogli, alti fino a 5-6 metri e altrettanto larghi. I rami sono di colore rosso-bruno, caratterizzati da corteccia scagliosa. Sono piante longeve, possono diventare plurisecolari ed hanno una crescita molto lenta. È una specie che predilige i terreni calcarei, e vive in piccoli gruppi nelle radure dei boschi di latifoglie, tra gli arbusti e nelle siepi del piano sino a 1500 – 1600 metri di altitudine. Fiorisce tra febbraio e marzo prima della fase di fogliazione. I fiori sono di colore giallo e di dimensioni ridotte (circa 5mm).

Il frutto del corniolo è una drupa (frutto carnoso) commestibile, dalla forma di una piccola oliva o ciliegia oblunga di colore rosso-scarlatto, dal sapore acidulo. Matura ad agosto ed è particolarmente apprezzato dagli orsi nel periodo dell’iperfagia, allorché devono mangiare abbondantemente in vista del periodo d’ibernazione. Le drupe contengono un unico seme osseo, riconoscibili negli escrementi degli animali che se ne nutrono.

I Romani utilizzavano il legno robusto del corniolo per la costruzione di dardi e le bacche per uso alimentare, coltivando questo arbusto anche nei loro orti. Una leggenda narra che Romolo, il fondatore di Roma, per segnare il confine della futura città, abbia lanciato il suo giavellotto (realizzato con legno di corniolo) verso il Palatino. Il manico di corniolo, conficcandosi nel suolo, radicò e fiorì a simboleggiare la futura potenza di Roma.

Oggi i loro frutti sono utilizzati in cucina per ottime marmellate e in fitoterapia come forti astringenti e antiossidanti, ricchi anche loro, come la rosa canina, di una grande percentuale di vitamina C. Dal seme si ricava un olio da ardere e tutta la pianta ha proprietà tintorie di colore giallo.


Fioritura di corniolo.
Flowering of cornelian cherry

I fiori di corniolo si trasformano in frutti.
The cornelian cherry flowers turn into fruits.

Drupe di corniolo.
Cornelian cherry drupes.

Corniolo con frutti maturi.
Cornelian cherry with riped fruits.

Walther Otto Müller

Faggio (Fagus sylvatica)

a cura di Marta Trobitz

 

Il faggio appartiene alla famiglia delle Fagaceae ed è uno degli alberi più diffusi nel bosco italiano. In Appennino Centrale è presente nella fascia altitudinale compresa tra 800 e 2.000 m.

La sua chioma, sempre alla ricerca del sole, punta verso l’alto fino a raggiungere i 20-30 metri di altezza.

È un albero longevo che può arrivare a 500 anni di età. Nel periodo autunnale perde le foglie creando giochi di luce e splendidi colori caldi.

Viene chiamato “il Re dei boschi” perché regna sovrano con la sua chioma fitta di rami e foglie, limitando lo sviluppo del sottobosco. È considerato magico perché crea boschi e produce continuamente humus. Mantiene i terreni freschi e ben drenati attraverso le radici, che possono estendersi notevolmente grazie alla simbiosi con alcuni funghi.

La sua corteccia liscia, grigia e profumata lo rende inconfondibile.

Il faggio è una pianta monoica, ovvero produce sia fiori maschili sia femminili. La fioritura, che di solito avviene nel mese di maggio, in autunno donerà agli abitanti del bosco un alimento prelibato: delle piccole noci triangolari che prendono il nome di faggiole. L’orso ne è ghiotto e il tasso di natalità della specie aumenta in relazione alla cosiddetta “pasciona” del faggio, ovvero quando la produzione di questi frutti è particolarmente abbondante. Le faggiole sono commestibili anche per l’uomo, ma è preferibile consumarle tostate in modo da eliminare le tossine che vi sono contenute.

Il faggio è considerato nella mitologia l’albero cosmico, una vera e propria scala verso il cielo e il divino. Infatti, i popoli italici e i Romani veneravano le foreste di faggio considerandole luoghi in cui poter meditare e avvicinarsi agli dèi. Il bosco sacro alla dea Angizia nei pressi dell’odierna Luco dei Marsi è un esempio di questo antico culto.


Nascita di un nuovo faggio
A new-born beech tree

All'ombra di una faggeta autunnale
In the shade of an autumnal beach forest

Galle (Mikiola fagi) su foglia di faggio
Gall (Mikiola fagi)

Una faggiola resiste all'inverno
A beechnut standing the winter

Faggete dal manto autunnale nella Vallelonga
Beech forests in their autumnal colours in Vallelonga

Sentiero nella faggeta
A path in a beech forest

Chioma estiva di faggio
The canopy of a beech tree in summer

Pruno europeo o Susino (Prunus domestica)

a cura di Marta Trobitz

 

Il pruno europeo, conosciuto anche come prugno o susino, è una specie arborea della famiglia delle Rosacee ben nota per i suoi frutti chiamati prugna o susina. L’origine della parola pruno è alquanto incerta: probabilmente deriva dalla radice indoeuropea prus, bruciare, da cui deriva anche il greco pyrsòs, rosso, colore del fuoco ardente.

Originario dell’Asia, fu introdotto in area mediterranea dai Romani verso il 150 a.C., ma furono poi i Cavalieri della Prima Crociata a portarlo in tutta l’Europa intorno al 1200 d.C., dapprima in Francia, poi in Germania e nelle altre regioni.

Il pruno ha la tipica forma ad ombrello o ad alberello di medie dimensioni con un’altezza che va dai 3-4 metri fino a 6-8 secondo la varietà. Predilige terreni freschi e profondi ed è possibile trovarlo fino a 1.000 metri di altitudine. Talvolta nodoso, presenta fiori solitamente bianchi che sbocciano già all’inizio della primavera ancor prima che la pianta metta le foglie. I frutti di forma ovale o sferica raggiungono una grandezza fino ad 8 cm.

A seconda della varietà, le susine maturano tra giugno e settembre e possono essere di colore diverso, gialle, rosse o bluastre. L’orso bruno marsicano ne va molto ghiotto e non si lascia sfuggire la possibilità di assaggiare questi frutti zuccherini disponibili proprio nel suo periodo di iperfagia.

Il pruno domestico è un albero non molto longevo e fruttifica per circa 20 anni.

Una curiosa credenza afferma che in Cina le ragazze contassero le prugne mature rimaste sull’albero per calcolare quanto tempo dovesse trascorrere per trovar marito. In passato il pruno domestico veniva usato come portafortuna per augurare la felicità di un matrimonio e per “restituire” la salute ai malati o come “tranquillante” per gli irascibili.

I suoi frutti trovano largo spazio in fitoterapia per gli alti contenuti di vitamine A-B1-B2 e C e di alcuni sali minerali come il potassio, il fosforo, il calcio e il magnesio.


Fioritura di pruno.
European plum in blossom

Pruno in fase vegetativa.
European plum in vegetative phase.

Susine mature.
Riped plums.

Un orso marsicano presso un susino
A Marsican bear by a plum tree

Walther Otto Müller

Ramno (Rhamnus alpina)

a cura di Marta Trobitz

 

Il ramno alpino è un arbusto cespuglioso della famiglia delle Rhamnaceae che in Appennino Centrale vive solitamente tra gli 1000 e i 2.000 metri di altitudine e che può raggiungere un’altezza massima di 2-3 metri.

Vive in preferenza su pendii rocciosi con un discreto grado di umidità. È una pianta che ama il sole e il vento. Viene definita pioniera perché in grado di insediarsi in ambienti quasi impossibili per qualsiasi altra forma di vita vegetale.

Fiorisce nei mesi di maggio – giugno per dare poi vita ai suoi frutti, le drupe, tra agosto e settembre.

Le drupe hanno un diametro di circa 5 mm, polpa carnosa e sapore dolciastro. Hanno proprietà lassative e depurative. Gli orsi ne vanno ghiotti e, nel periodo di maturazione, frequentano assiduamente i ramneti che pertanto vanno evitati dagli escursionisti per non disturbare gli animali in alimentazione. Attraverso le feci, gli orsi spargono i piccoli semi del ramno (disseminazione zoocora) favorendo la diffusione e la variabilità genetica di questa pianta.

Un tempo il ramno era inserito tra le cure farmaceutiche dell’uomo. Oggi i suoi frutti sono considerati dei lassativi troppo energici e si è scelto di utilizzarne solo una minima parte della corteccia per tisane regolatrici e depurative.

Le foglie hanno la pagina inferiore color argento. In inverno cadono mostrando l’intricato e affascinante gruppo di rami che fanno del ramno una pianta dal portamento ornamentale.


Orsi si alimentano su ramno a fine estate
Bears while feeding on the alpine buckthorn at the end of summer

Escremento di orso contenente ramno
A bear's excrement containing alpine buckthorn

Bacche di ramno mature
Ripe berries of alpine buckthorn

Le piante di ramno vivono in alta quota
The alpine buckthorn plants live at high altitude

Tipico ambiente roccioso e di alta quota favorevole al ramno
Typical rocky and high-altitude environment favorable for the alpine buckthorn

Otto Wilhelm Thomé

Fragola di bosco (Fragaria vesca)

a cura di Marta Trobitz

 

La fragola di bosco è una pianta erbacea della famiglia delle rosacee nota per i suoi frutti estremamente dolci e fragranti.

Infatti, il suo nome fragaria sembra essere connesso al sanscrito ghra, il cui significato è proprio “fragranza”.

Le fragoline di bosco sono un frutto apprezzato e consumato dall’uomo sin da tempi antichissimi. Pare che ben 10.000 anni fa questa pianta cominciò a diffondersi nelle aree boschive americane, europee e asiatiche e già nel Neolitico gli uomini iniziarono a cibarsene per poi imparare a coltivarle.

La fragaria vesca è molto comune in tutto il territorio europeo. È una pianta che predilige i soffici terreni del sottobosco nella mezz’ombra.

Le sue foglie trilobate sono raccolte in piccoli ciuffetti, che nel periodo tra aprile e luglio danno vita a piccoli fiori bianchi formati da 4 o 6 petali. Il suo falso frutto, la fragolina, sostiene il suo vero frutto costituito dai piccoli semini gialli che si trovano sulla sua superficie.

Una leggenda narra che Marte si trasformò in cinghiale e, durante una battuta di caccia, trafisse con le zanne il bellissimo Adone, perché era geloso del suo amore per Venere. La dea pianse l’amato e dove caddero le sue lacrime spuntarono bellissime piantine di fragole di bosco, dalla forma di cuore rosso.

Fin dai tempi antichi, dunque, le fragole di bosco erano amate e hanno sempre rappresentato il frutto dell’amore per la loro forma e il colore vivace. Erano consumate in abbondanza durante le Adonìe, festività primaverili dedicate ad Adone e all’amore. Nel Medioevo diventarono frutto peccaminoso proprio perché considerato afrodisiaco.

Le fragoline di bosco costituiscono per l’orso bruno marsicano un vero e proprio integratore di sali e vitamine per poter affrontare al meglio il periodo estivo. Infatti, i falsi frutti sono ricchissimi di vitamina C e vitamina A, di acidi grassi e sali minerali che trovano largo impiego anche nella fitoalimurgia.

Le foglie giovani e intatte sono perfette per preparare infusi rinfrescanti dallo spiccato effetto diuretico e depurativo.


Fragola
Wild strawberry

Fiore
Flower

W. Müller

Le querce (Quercus)

a cura di Marta Trobitz

 

Il Quercus è un genere di piante appartenente alla famiglia delle Fagacee comprendente gli alberi comunemente chiamati querce.

In Italia questo genere include diversi alberi spontanei, molti dal portamento imponente, ed alcune specie arbustive.

Le querce crescono spesso in boschi spingendosi fino ad un’altitudine di 800-1.000 metri. Sono alberi in grado di adattarsi facilmente a vari tipi di terreni, soprattutto se profondi e argillosi. Resistono molto bene a inverni rigidi ed estati torride.

Le foglie, alterne, sono talvolta lobate, talvolta dentate e sulla stessa pianta possono avere forme differenti a seconda della loro età. Le querce sono piante monoiche e hanno dunque sulla stessa pianta sia i fiori maschili che femminili. I fiori maschili sono riuniti in amenti di colore giallo, mentre quelli femminili sono di colore verde.

La fioritura avviene nel periodo tra aprile e maggio ed è contemporanea alla fogliazione. I frutti, acheni, sono chiamati ghiande. Hanno una forma liscia e allungata di circa 4 cm con una cupola rugosa e squamosa che le ricopre per circa un quarto della lunghezza. Con il procedere della maturazione, il colore delle ghiande varia dal verde al marrone.

In Italia sono presenti numerose specie di querce. In ambiente montano troviamo per lo più la farnia (Quercus robur), definita più comunemente come quercia, il cerro (Quercus cerris) e la roverella (Quercus pubescens), tra le specie più diffuse.  In alcune aree montane prossime al Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise troviamo anche un altro tipo di quercia: il leccio (Quercus ilex), solitamente presente a quote collinari e in zone miti. Nella zona di Casali d’Aschi di Gioia dei Marsi, resiste ad altitudini maggiori, relitto glaciale di un’epoca in cui la zona era mitigata dalle acque del Lago del Fucino. Il leccio è l’unica quercia sempreverde.

I querceti sono boschi sempre pieni di vita. La loro chioma aperta a cupola fa sì che sul terreno giunga molta luce, consentendo la crescita di molti arbusti come il corniolo, il nocciolo e il frassino e diverse piante erbacee.

Nella mitologia le querce vantano un notevole privilegio: possono ospitare ben due ninfe, due anime degli alberi. Le prime, driadi, erano in grado di abbandonare l’albero, motivo per cui, prima di ogni taglio, era d’obbligo chiamare un sacerdote che ritualmente le spingesse ad allontanarsi. Le altre, amadriadi, morivano invece con la quercia stessa, così che appena un albero era in pericolo il bosco si riempiva del loro lamento.

Un’altra leggenda narra invece del rapporto conflittuale tra Dio ed il diavolo. Quest’ultimo, infatti, stanco del grande potere che Dio aveva su tutti gli esseri viventi, chiese un giorno all’onnipotente di poter aver controllo sul bosco almeno in inverno. Gli alberi all’ascolto di quella richiesta tesero le foglie, certi del buon senso di Dio. Quest’ultimo acconsentì alle richieste del diavolo consentendogli pieno potere sul bosco solo nel momento in cui ogni pianta avesse perso tutte le foglie. Tutti gli animali e le piante allora, spaventati da quella decisione, chiesero consiglio alla grande quercia. Il saggio albero promise allora di lasciar cadere le sue foglie ormai secche solo il giorno in cui almeno un cespuglio, albero o pianta avesse rimesso le prime foglie verdi.

Nell’antica Grecia la quercia era l’albero consacrato a Zeus. I Romani usavano donare una corona fatta di rami di quercia a colui che in guerra aveva dimostrato valore, difendendo dalla morte un cittadino.

Il legno delle querce trova largo impiego come combustibile e nella realizzazione di mobilia. In fitoterapia la pianta ha un buon utilizzo per le sue proprietà astringenti ed emostatiche. Le ghiande sono dolci e, oltre a essere note per il loro impiego nell’alimentazione dei maiali, nei periodi di carestia e delle immediate fasi di dopoguerra erano utilizzate dall’uomo come fonte di farina per la realizzazione di pane o piadina di ghianda. Maturano tra i mesi di settembre e ottobre, in pieno periodo di iperfagia dell’orso bruno marsicano che se ne nutre abbondantemente.


Quercia
Oak

Foglia e chiocciola
Leave and snail

Foglie di roverella in inverno
Leaves of Quercus pubescens in winter

Zelimir Borzan

Melo selvatico (Malus sylvestris)

a cura di Marta Trobitz

 

Il melo selvatico (Malus sylvestris) è una pianta appartenente alla famiglia delle Rosaceae, che cresce prevalentemente in forma di arbusto o alberello, ma che può anche superare i 10 m di altezza in condizioni ottimali.

Il suo attributo latino sylvestris indica una “pianta che si trova nei boschi”.

Con la sua corteccia grigia, liscia nei primi anni e che si sfalda in placche in età più matura, cresce in terreni sabbiosi e ben drenati fino a 1.400 metri di altitudine. Il melo selvatico è un albero non molto longevo (fino a circa 80 anni) e di struttura sempre piuttosto esile.

I fiori color rosa tenue presentano una bellissima corolla a cinque petali. I suoi falsi frutti (pomi), simili a quelli del melo domestico, ma di dimensioni ridotte, hanno un profumo intenso e un sapore molto aspro a causa dell’alto contenuto di tannini. I pomi raggiungono la loro maturazione tra luglio e ottobre, proprio in concomitanza con l’inizio dell’iperfagia dell’orso bruno marsicano che quindi ne fa incetta, in previsione del letargo invernale.

Nella mitologia antica ricorre più volte la leggenda del melo, albero sacro a Era, sposa di Zeus, che produce frutti d’oro, simboleggiando la conoscenza salvifica e l’immortalità. La mela d’oro attribuita da Paride ad Afrodite ne ha originato anche l’emblema della bellezza femminile e della carnalità.

Si narra che Alessandro Magno abbia portato meli selvatici dal Kazakistan come bottino delle sue conquiste. I romani invece coltivavano oltre trenta diverse varietà di melo, prediligendo quelle che maturavano in autunno, in modo da poter conservare i frutti per tutto l’inverno. Nel Medioevo, i frutti aciduli erano utilizzati per conservare le derrate alimentari e per insaporire le insalate.

Molteplici testimonianze di epoca preistorica confermano che il melo selvatico era molto conosciuto e apprezzato fin dalle origini dell’uomo e che fosse coltivato in numerosissime varietà per le notevoli proprietà benefiche dei frutti.

I pomi diventano commestibili solo dopo i primi geli autunnali e possono essere utilizzati per preparare delle gelatine o immersi nella grappa o alcool in infusione (“pomino”). Oggi questa pianta è utilizzata come portainnesto per la coltivazione di varietà di Malus domestica.

Molti artigiani creavano ingranaggi per orologi, gioghi, ruote, meccanismi e viti con il duro legno del fusto. I tronchi più belli venivano trattati al vapore e usati per produrre tranciati impiegati per rivestire e decorare mobili pregiati.

Grazie alla loro fitta ramificazione i meli selvatici offrono spesso rifugio e nascondiglio per molti piccoli animali. Diverse specie di uccelli nidificano nelle cavità del tronco che sono utilizzate come riparo diurno anche dai pipistrelli.

 


Pianta di melo selvatico.
Plant of wild apple tree.

Frutto. (Ph. Siro Baliva)
Fruit.

Pomi.
Apples.

Escrementi di orso con semi di mela.
Bear scat with apple seeds.

C. A. M. Lindman

Tarassaco (Taraxacum officinale)

a cura di Marta Trobitz

 

Il tarassaco (Taraxacum officinale) o dente di leone è una pianta a fiore appartenente alla famiglia delle Asteracee.

Cresce spontaneamente nei prati, in luoghi incolti e lungo le strade fino a 2.000 metri di altitudine.

È una pianta erbacea e perenne di altezza compresa tra 10 e 30 cm. Presenta una grossa radice a fittone dalla quale si sviluppa, a livello del suolo, una rosetta basale di foglie munite di gambi corti e sotterranei. Il fusto, che si evolve in seguito dalle foglie, è cavo, glabro e lattiginoso. Sulla sommità del fusto troviamo l’infiorescenza, capolino, dai petali ligulati e color giallo denso.

La fioritura avviene in primavera, di solito in aprile-maggio, ma si può prolungare fino all’autunno. Da ogni fiore si sviluppa un achenio provvisto del caratteristico pappo: un ciuffo di peli bianchi, originatosi dal calice modificato, che, agendo come un paracadute, agevola con il vento la dispersione del seme quando questo si stacca dal capolino.

Nella mitologia si narra che Teseo, sotto consiglio di Hecate, mangiò per 30 giorni di fila solo denti di leone per diventare abbastanza forte e sconfiggere il Minotauro. Nella tradizione popolare soffiando sul pappo si può esprimere un desiderio: se con un sol soffio tutti i semi volano via il desiderio si avvererà a breve.

Il tarassaco è conosciuto con diversi nomi popolari, dente di leone, soffione, grugno di porco, ingrassaporci, per la sua capacità di stimolare l’appetito, e pisciacane o piscialletto per le sue proprietà diuretiche.

Questa pianta, ricca di flavonoidi, sali di potassio e altri minerali, si rivela per l’orso un eccezionale integratore per affrontare il periodo estivo.

In fitoterapia si utilizza ogni parte del tarassaco per le sue proprietà digestive, diuretiche, depurative e blandamente antiinfiammatorie. Foglie, fiori e radici sono ampiamente usate anche in cucina per sostituire capperi, realizzare insalate, pesti e molto altro.

I fiori del tarassaco, molto apprezzati dalle api, sono spesso utilizzati anche per la realizzazione di sciroppi o gelatine.

 


Fioritura di tarassaco.
Flowers of dandelion.

Tarassaco.
Dandelion.

Mirtillo nero (Vaccinium myrtillius)

a cura di Marta Trobitz

 

Il mirtillo nero è un arbusto della famiglia Ericaceae, il cui frutto viene catalogato tra i frutti di bosco.

Quest’arbusto ha un portamento espanso e un’altezza compresa tra i 20 ed i 60 cm. Cresce in zona montane fino ai 2.000 metri di altezza.

I suoi fiori bianchi hanno la forma di orcio rovesciato e abbelliscono la pianta nel periodo di maggio.

I frutti del mirtillo, di colore bluastro, sono pseudobacche che maturano nei mesi estivi. Raggiungono la loro massima maturazione nel periodo di agosto, ma è possibile raccoglierli e trovarli sulla pianta fino a settembre inoltrato.

La loro polpa, acidula e marrone, contiene tanti piccoli semi a forma di semiluna. Le pseudobacche hanno una forma rotonda con la tipica cicatrice circolare anulare sulla parte apicale.

I mirtilli trovano ampio utilizzo in cucina nella preparazione di succhi, confetture, gelatine e liquori.

I frutti infatti sono ricchissimi di antociani e sostanze antinfiammatorie, che hanno fatto sì che fin dal Medioevo questa pianta trovasse largo uso nella medicina. Nel XVI secolo era utilizzata per il trattamento dei calcoli vescicali, lo scorbuto, la tosse e la tubercolosi polmonare.

Le stazioni più abbondanti di mirtillo nell’area di distribuzione dell’orso marsicano si trovano sui Monti della Laga, nel Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, dove il suolo prevalentemente marnoso-argilloso è adatto alla crescita di questo arbusto.

Nella medicina odierna trovano ampio utilizzo nella cura di dissenteria, infiammazioni oro faringee e disturbi oculari.

I mirtilli, come le more o i lamponi, sono stati nella storia tra i migliori pretesti per riunirsi in compagnia e recarsi cantando nei monti. Nella tradizione estiva della montagna, c’era la “domenica del mirtillo”, giorno dedicato alla frivolezza, quando i giovanotti e le fanciulle, muniti di secchielli, invece di raccogliere i frutti, si dedicavano ad amoreggiamenti e danze. Alla fine, erano le madri a raccogliere i mirtilli, che poi utilizzavano per fare marmellate.

 


Mirtilli. Foto: Giampiero Cammerini.
Blueberry. Photo: Giampiero Cammerini.

Brughiera di mirtilli. Foto: Giampiero Cammerini.
Blueberry heat. Photo: Giampiero Cammerini.

Lampone rosso (Rubus idaeus)

a cura di Marta Trobitz

 

Il lampone rosso è un arbusto da frutto appartenente alla famiglia delle Rosaceae e al genere Rubus.

Il termine Rubus deriva da rubeo, cioè rosso: in riferimento al colore dei suoi frutti.

Il lampone rosso è un arbusto che cresce su terreni collinari o montuosi fino a circa 2.000 metri di altitudine. Colonizza spazi aperti all’interno di un bosco o parti di bosco che sono stati oggetto di incendi o taglio del legname.

Di colore verde o bruno rossiccio, questo arbusto può raggiungere i 2 metri di altezza. Le sue foglie, leggermente pelose, hanno margine dentato, con la pagina inferiore di colore biancastro.

Il lampone rosso è una pianta biennale che fiorisce tra maggio e giugno, dando alla luce i suoi frutti compositi, aggregati di drupe, in tarda estate.

Dioscoride (I sec.) chiamava il lampone “rovo del monte Ida”. Allo stato spontaneo era già conosciuto nel continente asiatico ed europeo. Si pensa che la pianta fosse coltivata anche dai Romani, che molto probabilmente la diffusero in tutto l’Impero. I lamponi compaiono spesso nell’arte medievale come simbolo di gentilezza, forse per il colore rosso sangue del succo, associato ai concetti di energia e nutrizione. In Grecia e Italia la coltivazione del lampone cominciò intorno al ‘500.

Una leggenda narra che Zeus si adirò con la ninfa Ida che, per fargli tornare il buon umore, andò a raccogliere una cesta di lamponi, che fino a quel momento avevano un colore biancastro, trasformandoli in frutti rossi.

L’orso bruno marsicano si nutre di lamponi in primavera ed estate, assumendo così vitamina C e tannini.

Infatti, i lamponi contengono buone quantità di vitamine B1, B2, B3, B9, A e C, sali minerali come potassio, ferro, sodio, fosforo, calcio e zinco. Sono ricchi di fibre, soprattutto pectine.

Il lampone è una pianta mellifera e bottinata dalle api. Può essere usato come diuretico e colagogo. L’infuso di foglie è utile contro la diarrea. Negli ultimi mesi di gravidanza si utilizzano le foglie e le gemme per tonificare i muscoli dell’utero e migliorare le contrazioni.

 

Lampone rosso – Raspberry