di Pierluigi Giorgio

Fra i riti di propiziazione invernali di Carnevale, nel periodo di passaggio tra due stagioni che si svolgevano o tuttora si svolgono in Molise con corrispondenze storico-antropologiche d’altre parti del mondo, accanto alla manifestazione del Diavolo di Tufara (CB) e al Cervo di Castelnuovo al Volturno (IS), l’Uomo-Orso di Jelsi o “U’ Ball dell’Urz”, il Ballo dell’Orso, lo ritroviamo a Jelsi, in provincia di Campobasso.

Tenuto a catena da un domatore e un aiutante che gli impongono di danzare sotto la minaccia di percosse con un bastone. Tra accenni di ribellione e passi di danza, si espandono in paese le note di improvvisati musicisti. Di tanto in tanto, fra i vicoli del borgo, il gruppo bussa alle porte delle case e al comando: “Orso a posto! Orso olè! Balla orso!” la famiglia ospitante offre da bere e da mangiare. Alla pantomima tradizionale (interrottasi con l’avvento del secondo conflitto mondiale) ho voluto affiancarne una più teatrale, “La Ballata dell’Uomo-Orso”: rappresentazione con tanto di tenore, coro, popolani e testo in rima musicato e cantato, che potesse meglio narrare la vicenda del povero orso (il capro espiatorio) dal momento della cattura all’asservimento: il messaggio che si evince dal testo stesso della Ballata non è tanto di interpretazione etno-antropologica, quanto di tipo più psicologico -oltre all’immagine di un dio pagano piegato dalla religione cristiana o di Dioniso che, “ucciso”, si fa seme e frumento-.

È la paura del diverso o di quella parte di sé libera e selvaggia occultata e rimossa dall’individuo o dalla comunità per buona pace di tutti. La razionalità imperante che offre ed impone uniformità rassicurante, incasellamento! Il risultato? Disagio: quello striderti dentro tra cuore e cervello… Nel catturare, imbrigliare, legare, imprigionare l’Orso, nel soggiogarlo fra le sbarre, nell’aggiogarlo  fra i nostri correnti, schematici, ripetitivi rituali di vita, nel canalizzare “l’urlo” nascosto e profondo in abituali, accomodanti trastulli di danza, imbrigliamo, soffochiamo lo scrigno più prezioso, la nostra essenza più profonda: quella da demonizzare, da non intendere, di cui si ha timore e che fa agli altri terrore… L’urlo del nostro “orso” interiore diventa sempre più flebile, più afono, più lontano: sempre più irrimediabilmente inascoltato:

“…Chissà se la gente si domanda e poi chiede come si viva con una palla al piede, al posto invece di annullare le pene senza quel vincolo delle catene.

Conservare il “selvatico” dentro di sé, essere in fondo quel che si è; mantenere il contatto con l’ingenuità, respiro primario d’identità. Forse è più comoda senza domande una vita da schiavo sotto badante; soffocare l’istinto con la ragione e danzare a comando: “Balla buffone!”

Il significato di “orso” ne “Il Ballo dell’Uomo-Orso di Jelsi”

È l’incontro tra una società arroccata nel recinto delle proprie convinzioni e regole e la diffidenza verso il “diverso” da mettere in riga o da annullare. Paura, timore verso ciò o chi non si conosce, chi è riuscito a conservare e proteggere quella parte “selvatica” istintuale di sé non in linea con la cieca equiparazione. Chi non si è totalmente adeguato, assimilato, che non ha subito il livellamento comune.